“Poema vegetale”, come la traduttrice Susanna Basso lo definisce, il romanzo della scrittrice sudafricana bianca, Wilma Stockenstrom, che ha vinto numerosi premi tra cui, in Italia, il Grinzane Cavour, e da cui trae ispirazione lo spettacolo, è stato scritto nel 1981 in afrikaans. Ed è bello notare che questo racconto di una schiava trovi parola nella lingua stessa di chi quella sofferenza ha causato, nella lingua gutturale e straniera dell’offesa.
Dal 1° all’11 Marzo al ridotto del Teatro Mercadante va in scena “Memorie di un schiava”, liberamente tratto da Spedizione al Baobab di Wilma Stockenstrom con Pamela Villoresi, adattamento drammaturgico e regia Gigi Di Luca.
Le memorie di una schiava, il desiderio di opporre resistenza alla vita, alla vita di violenze a cui è naturalmente costretta, sono il punto di partenza dello spettacolo, un poetico monologo dell’io narrante di una figura femminile della quale non si conosce il nome perché, commenta con amarezza: “pronuncio il mio nome e non significa nulla”.
L’albero, il mitico e simbolico “baobab” in cui la vecchia schiava alla fine della sua vita si rifugia, l’accoglie e la protegge “conosco l’interno del mio albero come un cieco casa sua, come si può conoscere qualcosa che è nostro soltanto e come invece non ho mai conosciuto le capanne e le stanze in cui mi veniva ordinato di dormire”. Il baobab è il suo punto di riferimento, il confine spaziale e temporale tra un passato, dominato da confusione e terrore, e un presente in cui la creatura comincia a riprendere in mano i fili della sua esistenza. O forse, a farlo per la prima volta. Dietro le spalle, in quel “prima diverso”, c’è la schiavitù, con le facce e i corpi dei successivi padroni che le attraversano e tormentano la vita.
La riflessione del personaggio del testo ci aiuta a riflettere e ci spinge a indagare sulla sottomissione psicologica e fisica, sulla schiavitù contemporanea che con nuove forme di costrizione continua a negare la libertà e la dignità umana.
Le parole poetiche della Stockenstrom e la storia della schiava sudafricana incontrano le storie e i volti delle ragazze nigeriane, senegalesi, ghanesi, albanesi, di oggi.
La messa in scena si muove su più piani narrativi, parole, immagini e musiche eseguite dalvivo da musicisti africani, “Griot” chiamati a raccontare nuove e più amare storie, a cantare un solo grande “canto corale di libertà”.