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Quando Whitney conquistò Sanremo

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Bella, ma anche drammaticamente fragile. Dotata di un talento naturale, anzi famigliare viste le parentele illustri, fuori dall’ordinario, ma incapace di gestirlo. Whitney Houston si è così unita ai tanti geni della musica che, sull’esempio dei poeti romantici maledetti, hanno salutato tro...

Houston

Bella, ma anche drammaticamente fragile. Dotata di un talento naturale, anzi famigliare viste le parentele illustri, fuori dall’ordinario, ma incapace di gestirlo. Whitney Houston si è così unita ai tanti geni della musica che, sull’esempio dei poeti romantici maledetti, hanno salutato troppo presto la vita terrena, sacrificandola sull’altare di piaceri effimeri ma evidentemente indispensabili per superare l’inadattabilità ad una vita resa soffocante dalla stessa popolarità, raggiunta forse troppo in fretta. Perché la figlia di Emily Cissy Houston, grande voce dei Sweet Insipirations (viste a Sanremo nel ’69), non aveva capito immediatamente che la sua strada sarebbe stata quella di distillare note dietro ad un microfono. Per lei lo comprese per primo il produttore Clive Davis: la folgorazione fu immediata e così anche il successo che in pochi mesi proiettarono Whitney tra le stelle della musica pop, il ritmo trascinante degli anni ’80. Ovviamente la fama di The Voice giunse anche in Italia e, come consuetudine dell’epoca, fu una partecipazione al Festival di Sanremo a renderla popolarissima anche nel Belpaese presso quei pochi che non avevano acquistato una sua musicassetta (allora andavano di moda quelle). E l’edizione del Festival che la consacrò da noi non poteva che essere quella del 1987, indimenticabile per mille ed un motivo.

Era l’epoca in cui Sanremo era uno dei due, tre spettacoli in grado di incollare alla televisione quasi tutte le famiglie, dai nonni ai bambini: uno spettacolo planetario che puntava anche, se non soprattutto, sulla qualità degli ospiti stranieri. Un altro mondo insomma rispetto a quello di oggi, quando anche per motivi economici le grandi stelle della musica internazionale si guardano bene dallo sbarcare all’Ariston. In quell’edizione le guest star vennero ospitate nella tensostruttura del PalaRock: un’idea discutibile, che costringeva gli spettatori a pagare un biglietto non poco costoso per assistere, in tardissima serata, ad esibizioni sempre in playback. Ma per quell’anno l’organizzazione non badò a spese: così oltre a miti di quegli anni come Bob Geldof o i Curiosity Killed The Cat o ai Simply Red, ed oltre all’esibizione degli Eighth Wonder, indimenticabile non solo per l’orecchiabile Will you remember ma pure per la spallina ballerina di Patsy Kensit, ecco arrivare Whitney Houston, da un biennio sulla cresta dell’onda musicale. A lei fu riservata la serata finale, datata 7 febbraio 1987, quella dei super-ospiti e della proclamazione del vincitore, ed ovviamente fu riservata la platea dell’Ariston e non quella del PalaRock.

Ma la serata fu tra le più tristi di sempre della storia del Festival, contrassegnata dalla morte di Claudio Villa, avvenuta nel pomeriggio ma di cui il Tg1 non aveva dato notizia alle 20. Fu Pippo Baudo, a serata quasi conclusa, ad informare l’Ariston che si alzò in un applauso commosso e spontaneo. Una standing ovation triste, insomma, di tutt’altro tenore rispetto a quella riservata pochi minuti prima alla Houston: The Voice infatti si era rifiutata di cantare in playback rendendosi protagonista di un’indimenticabile interpretazione di All at once, il suo primo grande successo, al punto da costringere Baudo a farle concedere un bis, evento mai più ripetuto nella storia per un ospite straniero. Una performance entrata di diritto nella storia di Sanremo, ben lontana da quella quasi malinconica che regalò ad X Factor 2009, quando della sua bellezza, dell’eleganza e di una voce unica non era rimasto quasi più nulla, provato dalla depressione, dalla drammatica fine del matrimonio con Bobby Brown e dalla causa con il padre, tutti motivi alla base della decisione di rifugiarsi nell’illusoria consolazione dell’alcool. Un’illusione che l’ha uccisa visto che alla base del decesso, avvenuto per annegamento, sembra esserci proprio un mix fatale di alcool e di un potente antidepressivo.

E così sarà inevitabile che il Festival la ricordi nell’edizione che va a cominciare domani: ad incaricarsene non potrà che essere la voce più black tra quelle in gara, Nina Zilli, che giovedì interpreterà proprio All at once con Skye dei Morcheeba. Fu quello un anno di grazia per Whitney, arrivata all’Ariston sull’onda lunga del successo ottenuto pochi mesi prima con I wanna dance with somebody (who loves me), la hit più famosa del travolgente album Whitney che ci ha accompagnato per anni e che continuerà a farlo. Altri trionfi sarebbero venuti, anche al cinema, con l’indimenticabile e commovente I will always love you, colonna sonora di The Bodyguard, in cui svelò insospettate capacità recitative. E forse l’essenza della breve vita di Whtiney va trovata proprio nei titoli dei suoi brani di maggior successo: l’incapacità di trovare qualcuno che l’amasse veramente. Oltre ai suoi fans, naturalmente. Che non possono che rimarcare commossi come l’addio alla grande Whitney sia arrivato proprio alla vigilia dei Grammy. E nella settimana di Sanremo.

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